Il Palazzo Enciclopedico è una mostra sulle ossessioni e sul potere trasformativo dell’immaginazione. Artisti assai diversi quali Morton Bartlett, James Castle, Peter Fritz e Achilles Rizzoli hanno passato la vita a progettare mondi alternativi. La tensione tra interno ed esterno, tra inclusione ed esclusione è il soggetto di una serie di opere che indagano il ruolo dell’immaginazione nelle carceri (Rossella Biscotti) e negli ospedali psichiatrici (Eva Kotátková). Altri spazi di reclusione – più o meno fantastici – sono quelli disegnati da Walter Pichler che per tutta la vita ha progettato abitazioni e case per le sue sculture, quasi fossero creature viventi provenienti da un altro pianeta.
Nei vasti spazi dell’Arsenale – ridisegnati per l’occasione - l’esposizione è organizzata secondo una progressione dalle forme naturali a quelle artificiali, seguendo lo schema tipico delle wunderkammer cinquecentesche e seicentesche. In questi musei delle origini – non dissimili dal Palazzo sognato da Auriti – curiosità e meraviglia si mescolavano per comporre nuove immagini del mondo fondate su affinità elettive e simpatie magiche. Questa scienza combinatoria – basata sull’organizzazione di oggetti e immagini eterogenee – non è poi dissimile dalla cultura dell’iper-connettività contemporanea.
Cataloghi, collezioni e tassonomie più o meno impazzite sono alla base di molte opere in mostra tra cui le fotografie di J.D. ‘Okhai Ojeikere, le installazioni di Uri Aran, i video di Kan Xuan, i bestiari di Shinichi Sawada e i labirinti di Matt Mullican. Pawel Althamer compone un ritratto corale con una serie di novanta sculture.
Dal Liber Novus di Jung, passando per gli assemblage di Shinro Ohtake fino ai volumi di Xul Solar, la mostra celebra il libro – questo oggetto ormai a rischio di estinzione – come spazio-rifugio, luogo della conoscenza, strumento di auto-esplorazione e via di fuga nel dominio del fantastico. Yüksel Arslan disegna le tavole enciclopediche di una civiltà immaginaria che assomiglia a una versione non troppo distorta dell’umanità. L’ambizione di creare un opus magnum – un’opera che, come il Palazzo di Auriti, contenga e racconti tutto – attraversa i disegni di Arslan e le illustrazioni della Genesi di R. Crumb, le cosmogonie di Frédéric Bruly Bouabrée e le leggende descritte da Papa Ibra Tall. Nel suo nuovo video Camille Henrot studia i miti di creazione di diverse società, mentre le centinaia di sculture di creta di Fischli e Weiss forniscono un antidoto ironico agli eccessi romantici delle visioni più totalizzanti.
Nei disegni di Stefan Bertalan, Lin Xue e Patrick Van Caeckenbergh, assistiamo a tentativi ostinati di decrittare il codice della natura, mentre i film di Gusmão e Paiva, le fotografie di Christopher Williams e dei pionieri Eliot Porter e Eduard Spelterini scrutano ecosistemi e paesaggi con lo sguardo meravigliato di chi vuole catturare lo spettacolo del mondo.
I video di Neïl Beloufa e Steve McQueen e i quadri di Eugene Von Breunchenhein immaginano diversi modi di visualizzare il futuro mentre il ricordo del passato e la memoria sono il punto di partenza per le opere di Aurélien Froment, Andra Ursuta e altri artisti in mostra.
Al centro dell’Arsenale l’artista Cindy Sherman presenta un progetto curatoriale – una mostra nella mostra, composta da più di duecento opere di oltre trenta artisti – in cui è messo in scena un suo personale museo immaginario. Bambole, pupazzi, manichini e idoli si mescolano a collezioni di fotografie, dipinti, sculture, decorazioni religiose e tele disegnate da carcerati che insieme compongono un teatro anatomico nel quale sperimentare e riflettere sul ruolo che le immagini hanno nella rappresentazione e percezione del sé. La parola “immagine” contiene nella sua etimologia una prossimità profonda con il corpo e con la morte: in latino l’imago era la maschera di cera che i romani creavano come calco per preservare il volto dei defunti.
Di corpi e desideri ci parlano anche il nuovo video di Hito Steyerl sulla cultura dell’iper-visibilità e il nuovo reportage di Sharon Hayes che presenta un remake girato in America di Comizi D’Amore, il film inchiesta sulla sessualità di Pier Paolo Pasolini. Il desiderio di verità inseguito da Pasolini stesso in tutta la sua carriera è ricordato nel monumento dedicatogli da Richard Serra.
Quelli sognati da Evgenij Kozlov sono corpi agitati da fantasie di un adolescente inquieto, che non stonano accanto alle matrone procaci di Friedrich Schröder-Sonnenstern o vicino ai guardoni di Kohei Yoshiyuki. Questa tensione scopofiliaca contraddistingue anche i quadri di Ellen Altfest che scruta i corpi dei suoi soggetti con uno sguardo lenticolare, come se volesse catturare e conoscere il mondo poco a poco, centimetro di epidermide dopo centimetro di epidermide.
I corpi post-umani e smaterializzati di Ryan Trecartin introducono alla sezione finale dell’Arsenale in cui opere di Yuri Ancarani, Alice Channer, Simon Denny, Wade Guyton, Channa Horwitz, Mark Leckey, Helen Marten, Albert Oehlen, Otto Piene, James Richards, Pamela Rosenkranz, Stan VanDerBeek e altri esaminano la combinazione di informazione, spettacolo e sapere tipica dell’era digitale.
A fare da contrasto al rumore bianco dell’informazione, un’installazione di Walter De Maria esalta la purezza silenziosa e algida della geometria. Come tutte le opere di questo artista leggendario – figura fondamentale dell’arte concettuale, minimalista e della land art – questa scultura astratta è il risultato di complessi calcoli numerologici, sintesi estrema delle infinite possibilità dell’immaginazione.
Una serie di progetti in esterni di John Bock, Ragnar Kjartansson, Marco Paolini, Erik van Lieshout e altri completa il percorso della mostra che si snoda fino alla fine dell’Arsenale, nel cosiddetto Giardino delle Vergini. Alcune di queste performance e installazioni si ispirano alla tradizione cinquecentesca dei “teatri del mondo”, rappresentazioni allegoriche del cosmo in cui attori e architetture effimere erano usate per costruire immagini simboliche dell’universo.
Da queste e molte altre opere in mostra, Il Palazzo Enciclopedico emerge come una costruzione complessa ma fragile, un’architettura del pensiero tanto fantastica quanto delirante. Dopo tutto, il modello stesso delle esposizioni biennali nasce dal desiderio impossibile di concentrare in un unico luogo gli infiniti mondi dell’arte contemporanea: un compito che oggi appare assurdo e inebriante quanto il sogno di Auriti.